Bob Krieger - Lo sguardo della curiosità
La casa è elegante, raffinata. Bob Krieger ci accoglie con gentilezza e disponibilità. Volgiamo lo sguardo intorno a noi, anche un po’ stupiti. Le opere del fotografo campeggiano ovunque, comprese quelle fatte rivivere con la rinnovata espressività della manipolazione. Il dialogo inizia e prosegue in armonia, mosso da una coerenza di fondo. Non ama parlare di sé, Bob, preferisce ascoltare, interagire, comprendere. Si definisce curioso, e non stentiamo a crederlo, soprattutto quando ci racconta le immagini che vediamo. Sono i gesti a stimolarlo, le movenze dei soggetti. È lì che inizia l’interpretazione dell’immagine che sarà: sia nel caso di una fotografia di moda, che di un ritratto. Avedon l’ha stimolato in tal senso: è lui stesso a confermarcelo; ma crediamo che tanta ispirazione parta da lontano. Probabilmente la sua gioventù l’ha abituato a intravedere, a stringere gli occhi per guardare più in là; anche quando la guerra gli restituiva paura, incertezza e l’odore dei rifugi. Pensiamo poi a sua madre: bella, elegante, nobiliare, artista; e al tutore, che gli ripeteva come la vita non comprendesse meriti. Bob continuava a guardare, per cercare ciò che comprendeva, ma anche quanto era di difficile spiegazione. “Ho spesso cambiato opinione”, ci dice; e noi crediamo rappresenti il massimo della coerenza, perché chi cerca non sa cosa trova. La curiosità, quindi, è la parola chiave della vita di Bob Krieger; ma lo sono anche ascolto e interpretazione. Non ha incontrato l’amore, il nostro fotografo; lo afferma quando meno ce lo aspettiamo. Ma è sempre la coerenza a vincere, almeno crediamo. Quel sentimento non prevede ascolti o domande: occorre svestirsi, mostrarsi. Non basta la curiosità e nemmeno il suo sguardo.
Bob, quando hai iniziato a fotografare e perché?
Per necessità: quella della sopravvivenza. Ho ancora nelle narici l’odore del rifugio. Quando bombardavano, non sapevo cosa sarebbe successo un minuto dopo. Il dopoguerra ci ha viziato, come anche il periodo che stiamo vivendo: fatto di un benessere imposto, con in più l’illusione che non debba finire mai. In fotografia ho iniziato a undici anni (ricordo un ritratto di mia madre). Solo nel ’62 divento assistente presso uno studio, per quattro anni. I Clienti s’innamoravano di me e dopo un po’ la convivenza divenne impossibile. Nel ’67 sono a Milano, città che non ho mai abbandonato. Con la fotografia desideravo esprimere il mio DNA, quello ereditato da mia madre, che era un’artista. Quelli della mia generazione ricercavano continuamente grazie e bellezza. C’era stata la guerra e tutti volevamo abbandonarne l’idea e il ricordo.
La tua è stata passione per la fotografia?
È arrivata dopo, col tempo. Oggi vive più di allora, quando la passione si è spostata sul ritratto. La moda ha rappresentato una bella favola e nulla più. La fotografia di per sé è un fatto tecnico, chimico e meccanico; oggi è stato sovvertito tutto. In quegli anni eravamo in due: io e Barbieri. Iniziava un periodo storico, com’è stato per Newton, Penn, Avedon.
Hai avuto degli elementi ispiratori?
Avedon e Penn: due scuole. Gli altri possiamo considerarli delle derivazioni. Loro ci hanno lasciato un’eredità. Mi piace parlare dei due grandi, perché non amo disquisire di me stesso. Il termine “Io” m’irrita. Non dicevo mai: “Ho scattato una bella foto”, ma “Abbiamo fatto una bella foto”. E mi riferivo agli assistenti, ai truccatori, alla stylist.
Avedon e Penn hanno quindi avuto influenza su di te...
Avedon certamente. Lui era in sintonia col mio DNA. Non posso dire di averlo copiato; piuttosto ho proseguito il suo filone.
L’hai conosciuto?
L’ho incontrato una volta a New York, ma conoscevo già i suoi lavori. È stato meglio così. Se avessi approfondito il rapporto con lui, molto probabilmente ne sarei rimasto deluso. Non sono entrato in relazione con altri autori, anche perché si sarebbe parlato solo di lavoro.
Torniamo alla tua passione, quella maturata col tempo: oggi è importante?
Senza passione non si fa niente. Quando guardo una fotografia, sono in grado di comprendere.
Prima mi parlavi della fotografia come un evento chimico, oggi la si considera quasi un’arte...
La fotografia è strana. Oggi puoi considerarla alla stregua di un’arte decorativa, perché la si può manipolare.
Fotograficamente come ti definiresti?
Ho intrapreso diversi percorsi. La moda ha rappresentato l’inizio, poi sono passato al nudo e al ritratto. Oggi mi dedico anche all’espressività artistica, intervenendo sulle immagini e restituendo loro una seconda vita. Mi sono focalizzato sugli occhi, che sono lo specchio dell’anima. Per rispondere alla tua domanda, non ho affrontato un genere preciso: le ho tentate un po’ tutte.
Mi parlavi della curiosità...
Rappresenta l’essenza della mia vita. Non sono mai stato interessato a me stesso, ma a cosa pensavano gli altri. Lo stesso ritratto mi permette di conoscere la persona che ho di fronte: è un atto di seduzione reciproca.
Qual è la qualità più importante per un fotografo come te?
Quella di sopravvivere. Se continui a essere monotono, crolla la tua sicurezza. La vita va vissuta, assaporata in tutte le sue sfaccettature. Io non credo nella fortuna assoluta, ma non tutti possono affrontare l’esistenza appieno. La natura spesso distribuisce vantaggi e cattiverie. Io non sono mai stato a scuola, ho avuto un tutore che mi ripeteva: “Ricordati che nella vita non abbiamo nessun merito, specialmente se si è fortunati”. Occorre rispettare tutti, soprattutto coloro che non godono di privilegi. La mia è una storia lunga e contraddittoria. Se non cambi idea sei un asino.
C’è, tra le tue, una fotografia che ami particolarmente?
Quelle di Giorgio Armani e Gianni Agnelli.
C’è un obiettivo che utilizzi preferenzialmente?
Non credo a queste cose: la meccanica della fotografia è scontata e ovvia. Io cerco di capire l’uomo, sin dalla sua gestualità: è lì che si insinua la curiosità.
Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?
Ho sempre fatto ciò che volevo. Direi che mi manca il tempo per esaudire i miei desideri. Sono stato in grado di reinventarmi più volte. Io non ho opinioni: ascolto quelle degli altri. Ciò che mi piace del mio carattere è che cambio spesso opinione.
Fortuna, curiosità, ascolto: tante sono le parole chiave della tua vita...
La fortuna ha rappresentato la componente più importante, ma non ho mai raggiunto la felicità. Sono stato incapace di amare. C’era poco spazio nella mia vita: amavo solo il mio lavoro.
L’amore è importante?
Non lo so; probabilmente crea anche dei problemi, visto che ti distrae. Di certo rappresenta un momento di grazia.
Bob, come hai curato la tua formazione fotografica?
Ho fatto tutto da solo. Sono stato influenzato dai lavori di Avedon e mi sono riconosciuto nella gestualità dei suoi soggetti, che poi ricordava quella di mia madre. Lei era una donna bellissima ed elegante, ma nelle sue movenze riconoscevo una sorta di sofferenza.
Il gesto è importante nella tua fotografia...
Risulta essere la chiave di tutti i miei ritratti, dove alle volte i soggetti hanno addirittura gli occhi chiusi.
Tu hai immortalato la moda per molti anni...
Più di quaranta.
Donne e uomini?
Sì, in parti uguali. Le donne hanno prevalso all’inizio.
Che carattere possiedono, modelli e modelle, nelle tue immagini?
Tutto molto classico. Ero sempre alla ricerca della perfezione, dell’estetica: un’eredità della mia famiglia. I miei nudi si sono ispirati a Canova e Michelangelo; meno a Caravaggio, che pure oggi apprezzo molto.
Arriviamo al nudo. Anche lì occorrono delle qualità fotografiche, dico male?
L’importante è non coinvolgersi. L’attrazione fa parte della fotografia, ma deve configurarsi come un desiderio negato; e così deve rimanere, senza lasciare spazio allo sfogo. Io non ho mai avuto rapporti con i soggetti ritratti, mi sono limitato a osservare.
Potessi farti un augurio da solo, cosa ti diresti?
Ritrarre una persona che non ho mai fotografato.