Antonio Guccione - Come in un film...
Lei è bella, svedese, giovanissima. Lui la incontra in aeroporto: ne nasce un amore, quello importante, per la vita. Ci piace iniziare così, da un episodio che ci è stato raccontato con garbo ed eleganza. Con la fotografia pare non esservi alcun legame e invece non è così.
Da Antonio abbiamo imparato il rispetto per la vita e per il sentiero che t’invita a percorrere. Di mezzo c’è anche il mestiere, e non potrebbe essere altrimenti. Ha immortalato le star più famose al mondo, ma non abbiamo percepito il senso della conquista e nemmeno quell’orgoglio che potrebbe essere naturale. Antonio, mentre parla di sé, rimane al suo posto: quello del fotografo. Ci fa immaginare quella folding che ha maneggiato spesso e anche le circostanze da affrontare sul lavoro. Del resto, abbiamo capito come lui si sia sempre interrogato, cercando (col rischio) quel limite da valicare in continuazione: per essere vero, migliore, o anche semplicemente fotografo. Come in un film? Certo, una vita affascinante. Crediamo però che Antonio l’abbia meritata a iniziare dall’atteggiamento, dal comportamento, da un’eleganza innata già manifesta in giovane età: quella dell’ingenuità con i capelli lunghi. Londra, Parigi, Milano, New York, non sono solo le tappe di una carriera (fulgida, peraltro), ma ambiti già pronti ad accogliere la sua fotografia, la visione sulle cose e sul mondo che si costruiva pian piano. Per la vita di Antonio, non occorre chiamare in causa il destino e nemmeno vanno prese in considerazione episodi fortuiti e occasionali. C’era un “copione” già scritto ad anticipare il suo percorso professionale, voluto con l’atteggiamento prima ancora che con le scelte. Il Ciak c’è stato, a dodici anni: con dei ritratti dove lui tagliava le teste. Da lì in poi le luci della sala si sono abbassate ed è iniziata la proiezione di una vita. Come in un film, appunto.
Antonio, quando hai iniziato a fotografare?
A undici anni: dei parenti mi avevano regalato una fotocamera. Nei ritratti tagliavo spesso le teste. Poi, venticinque anni dopo a Parigi, mi accorsi che Guy Bourdin su Harper's Bazaar faceva lo stesso. Un piccolo aneddoto per dire che nulla viene per caso. Il primo studio lo apro a Milano, in via Cellini 2.
Perché la fotografia?
All’epoca la fotografia non godeva gli stessi favori di oggi: rappresentava un lavoro come un altro. Con esso si poteva vivere. Del resto, il mondo della moda mi attirava, e lì m’indirizzai: tra belle donne ed emozioni. La realtà, ovviamente, nascondeva le sue difficoltà. Il caso volle che Guccio Gucci mi consegnasse quattro oggetti da fotografare. Io non sapevo neanche chi fosse. Lui mi disse: “Consegni tutto tra un mese; faccia quello che vuole”. Andai a Firenze col mio lavoro: rimase sorpreso. Mi offrì un compenso di un milione di lire: stentavo a crederci.
Subito un cliente importante, quindi...
Sì. Dopo arrivarono Gianni Versace e Miuccia Prada. Feci le loro campagne. Un giorno, tra un lavoro e l’altro, inventai i ritratti con la proiezione. I galleristi rimasero basiti: la fotografia è tecnica e dopo diventa arte. Organizzai così la prima esposizione, “Facce”, a Milano. Era il 1986. Si diceva: “Guccione è partito”. Andai a Parigi (per sette anni), lavorando per la redazione di Harper's Bazaar. Le cose in Francia andavano bene. Mi dedicarono anche una copertina su Zoom. Tornavo a Milano solo ogni tanto. Avevo uno studio in Rue de l'Université, che era stato di Mimmo Rotella. Ricordo che, in quel periodo, davanti a me avevo Helmut Newton e Guy Bourdin. Scattavo per strada con una Speed Graphic: ero lento; un ragazzo ingenuo, dai capelli lunghi.
Parigi poi New York, dico male?
Sì, passando per Milano; perché nel frattempo ero tornato. Amica mi manda a Santo Domingo. Durante il viaggio, in aeroporto incontro mia moglie. Un ultimo dell’anno, passiamo alcuni giorni a New York. Scoppia la guerra del Golfo. Furio Colombo mi suggerisce: “Non tornare in Italia”. Rimanemmo là, nella “Grande Mela”: io, il fotografo, e una modella. Iniziai a vendere i miei ritratti, poi nacque “Faces of New York”. Ne nacque una mostra: “Foto gigantesche di star, da Richard Gere a Anthony Quinn; all’inaugurazione parteciparono 10 mila persone”. Dall’Italia arrivavano le committenze per fotografare le top model. In USA mi trovai bene. Là sono nati i miei figli.
La tua vita pare un film: è affascinante...
Non so. Ti ho raccontato i miei inizi. Oggi continuo a lavorare su progetti e la mia attenzione si è spostata sull’arte, come con i lavori sui teschi. Produco anche delle sculture, che poi fotografo e distruggo.
La tua è stata passione per la fotografia?
Sì, una vera, autentica passione: un amore. Posso dirti che è facile fotografare su commissione: altri ti dicono cosa fare. Quando sei da solo, tutto è diverso: terrificante. Si vive in un profondo stato d’angoscia. L’artista è consapevole della propria precarietà.
Fotograficamente come ti definiresti: ritrattista?
La moda mi ha fatto nascere, ma di base sono un ritrattista; con un riferimento preciso: la figura umana. Tutte le persone hanno qualcosa di bello. Il mio lavoro non è lezioso: io colgo qualcosa che è presente nell’essere umano.
Il ritratto è un incontro?
Un incontro importante. Col mio modo di fare ho sedotto tutti i soggetti che hanno posato davanti al mio obiettivo. Fellini impazzì di gioia con le mie Polaroid in mano.
Qual è la qualità più importante per un ritrattista come te?
Non esserci, in umiltà. Quando le persone vengono in studio per farsi ritrarre, affrontano una seduta: come da un medico. Succede che spesso non mi riconoscano. A loro resta ciò che hanno realizzato: la forza è lì. L’essenza del fotografo è unica, magica. Oggi tutti sono in grado di produrre una buona fotografia. Da lì e procedere fino a un contesto artistico il passo non è breve.
Molti dicono che si è fotografi ventiquattro ore al giorno?
Io vivo con una donna che sopporta i miei cambiamenti d’umore, che sono tipici di chi vive
continuamente la propria espressività. Salvator Dalì si addormentava sulla sedia a dondolo, con un oggetto in mano che rischiava di cadere. Lui ricercava gli stimoli, che poi richiamava.
Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?
Sì, e riguarda il tempo: quello che passa, inesorabilmente. È un po’ una mia ossessione.
Il fatto che scorra per me rappresenta un’atrocità.
Tu sei un fotografo del grande formato...
Li ho usati un po’ tutti, i grandi formati; al settanta per cento il 4X5 pollici, con una Speed Graphic. Dovendo ritrarre persone, non m’interessavano i movimenti del banco ottico. Privilegiavo la rapidità d’esecuzione. Ho iniziato con il 24X36 mm, passando subito alla pellicola piana (10X12). Sono passato anche per il 20X25 e il 6X7, formato quest’ultimo che ho abbandonato solo con l’arrivo del digitale.
Il tuo rapporto con la tecnologia digitale?
Per noi che abbiamo un bagaglio alle spalle, il digitale ha cambiato diverse cose, togliendo innanzitutto il processo. Non si analizzano più i provini, in più viene a mancare quell’ansia che diventava necessità di prevenire: una modella con un brufolo la mandavi a casa. Del resto, ogni lavoro viene svolto a basso costo, anche perché tutti possono produrre immagini. Stiamo vivendo una sorta di delirio mondiale. Da lì a dire che faremo le stesse cose di una volta, beh posso dire che ci vorrà del tempo. Oggi abbiamo dei Cyber fotografi, ma alla fine non rimane niente: il che rappresenta una tragedia.
Meglio la pellicola, quindi...
Non desidero demonizzare le nuove tecnologie, anzi. Certo è che con il loro avvento si è avuta una decadenza verso il basso. Tutto viene lisciato, pulito, laccato; ed è l’effetto Photoshop. Il Digitale? Sì, a patto che gusto e contenuto si mantengano ad alto livello. Circa la pellicola, posso dire che almeno ti lasciava la “matrice”. Dopo trent’anni, posso tirare fuori le mie “piane” e stamparle. La pellicola è verità. Personalmente uso il digitale come un Polaroid, poi qualche pellicola la scatto.
B/N o colore?
Colore, perché più impegnativo. Il B/N rappresenta la fotografia per eccellenza, il colore la verità. Un’opera “cromatica” va avanti nel tempo.
Hai avuto degli elementi ispiratori? Dei fotografi per i quali hai nutrito una profonda ammirazione?
Sì, e sono tanti: Henri Cartier Bresson, Gian Paolo Barbieri, Richard Avedon, Irving Penn, Robert Mapplethorpe, Helmut Newton.
Potessi farti un augurio da solo, cosa ti diresti?
Vorrei creare tutti i giorni, rischiando quotidianamente. E poi mi piacerebbe mettere ordine nell’archivio.